venerdì 30 ottobre 2009

Anche alla casalinga spetta il danno patrimoniale

Cass. civ., sez. III, 19 marzo 2009, n. 6658

La casalinga, pur non percependo reddito monetizzato, volge un'attività suscettibile di valutazione
economica, che non si esaurisce nell'espletamento delle sole faccende domestiche, ma si estende al
coordinamento della vita familiare, per cui costituisce danno patrimoniale (come tale,
autonomamente risarcibile rispetto al danno biologico) quello che la predetta subisca in
conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa

Svolgimento del processo

F. V. e V. G. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte d'appello di

Roma del 21 marzo 2003-27 gennaio 2004 che confermava integralmente la sentenza del Tribunale

di Latina n. 686 del 2000, la quale - ritenuta la esclusiva responsabilità di B. P., conducente della

vettura di proprietà di omissis s.r.l., assicurata presso SASA assicurazioni - condannava i convenuti

in solido al pagamento della somma complessiva di lire 22.054.300 e 100.850.200 in favore di V.

G. e F. V., a titolo di danno biologico e morale, disattese per entrambi le domande di risarcimento

del danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica.

Avverso tale decisione sia il G. che la V. hanno proposto ricorso per cassazione sorretto da due

motivi.

Gli intimati non hanno svolto difese.

Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Il difensore dei due ricorrenti ha partecipato alla discussione alla adunanza in data odierna.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la V. denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto, omessa,

insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato

dalle parti o rilevabile d'ufficio; in particolare violazione dell'art. 112 c.p.c. e degli articoli 4 e 37

della Costituzione che tutelano tutte le forme di lavoro prevedendo espressamente il ruolo della

lavoratrice-casalinga.

I giudici di appello avevano pronunciato in aperta violazione del principio di corrispondenza tra

chiesto o pronunciato, ritenendo che i postumi permanenti residuati alla V., casalinga, incidessero

nella capacità lavorativa generica - e non invece in quella specifica - e che rientrassero quindi

nell'ambito del danno biologico già liquidato.

Correttamente, invece, il primo giudice aveva inquadrato la compromissione della capacità

lavorativa della V. nella riduzione di capacità lavorativa specifica.

Sul punto non era stata proposta alcuna censura in sede di appello dalla compagnia di assicurazione

né dalle altre convenute, sicché la decisione doveva ritenersi passata in giudicato.

In ogni caso, i giudici di appello avevano dimostrato di non conoscere la giurisprudenza di questa

Corte secondo la quale il danno patito da una casalinga a seguito di infortunio rientra, a pieno titolo,

nell'ambito di un danno alla capacità lavorativa specifica.

Il motivo è manifestamente fondato.

È appena il caso di porre in luce che la casalinga, pur non percependo reddito monetizzato, volge

un'attività suscettibile di valutazione economica, che non si esaurisce nell'espletamento delle sole

faccende domestiche, ma si estende al coordinamento della vita familiare, per cui costituisce danno

patrimoniale (come tale, autonomamente risarcibile rispetto al danno biologico) quello che la

predetta subisca in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa (Cass. 9 febbraio

2005 n. 2639. Nello stesso senso, ex plurimis, Cass. 11 dicembre 2000, n. 15580).

La sentenza impugnata, che non si è uniformata a tale principio, deve pertanto essere riformata.

Con il secondo motivo il solo G. denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa

un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, nonché violazione

e falsa ed errata applicazione di norme di diritto.

La decisione della Corte romana era gravemente insufficiente e contraddittoria nel punto in cui

aveva escluso qualsiasi danno alla capacità lavorativa specifica del G..

Infatti, questi, Comandante Alitalia, aveva dovuto cessare l'attività di volo ed accettare il

pensionamento anticipato a causa di un intervento chirurgico effettuato nell'anno precedente

l'incidente.

Dopo il sinistro del omissis aveva continuato a svolgere, presso la stessa Compagnia, attività di

insegnante a terra con simulatori di volo, in qualità di collaboratore esterno, con una attività più

ridotta, e con un minor guadagno rispetto a quello ottenuto nell'anno precedente.

I giudici di appello avevano negato, sulla base dell'accertamento di questa attività libero

professionale (svolta nell'anno 1996 e 1997) che i postumi permanenti residuati al Comandante G.

fossero tali da influire in qualche modo sulla capacità lavorativa dello stesso, sul rilievo che la

documentazione fiscale prodotta dimostrava che guadagni del G., anche dopo il sinistro, erano stati

all'incirca pari a quelli derivanti dalla attività libero professionale iniziata dopo il pensionamento.

Anche questo motivo è manifestamente fondato.

I giudici di appello, procedendo ad un esame accurato della documentazione fiscale acquisita agli

atti (solo formalmente richiamata a pag. 8 della sentenza impugnata senza alcun riferimento ai dati

ricavabili dagli stessi) avrebbero dovuto accertare se il G. avesse dato la prova sia dell'an che del

quantum debeatur per la perdita definitiva del reddito in relazione alla attività libero professionale

iniziata subito dopo il pensionamento, per i redditi percepiti negli anni che avevano preceduto

l'incidente e per quelli relativi agli anni seguenti, dopo la interruzione dovuta alle conseguenze

dirette dell'incidente stradale.

Tale danno, permanente e futuro, secondo la giurisprudenza di questa Corte, deve essere

integralmente risarcito, nella sua complessità, presentando per l'attualità la nota di danno emergente

(poiché se manca il reddito emerge la necessità di ricorrere al risparmio accumulato o

all'indebitamento o alla solidarietà) e di lucro cessante (come perdita, mancato guadagno che si

protrae per l'intera esistenza).

Non può quindi condividersi l'assunto della Corte romana, che ha corretto il principio del

risarcimento integrale, riducendolo e ponendo a carico del danneggiato un ulteriore e non richiesto

onere della prova: quello di dimostrare che il lucro fosse effettivamente cessato, parzialmente o

nella sua totalità.

Tra l'altro, dal mancato decremento, o addirittura dall'incremento, di reddito successivamente

all'invalidità permanente derivata da un incidente ad un soggetto, non può affatto desumersi

automaticamente (come invece hanno ritenuto i giudici di appello) la mancanza di incidenza di tale

invalidità sulla capacità lavorativa specifica di questi - e quindi la mancanza di danno per lucro

cessante - in quanto, da un lato, le conseguenze del maggior impiego di energie, necessario per

mantenere inalterato il reddito raggiunto precedentemente, possono manifestarsi anche a distanza di

tempo, come nel caso di anticipata cessazione dell'attività medesima, oppure - come appunto

dedotto dal ricorrente nel caso di specie - le stesse possono comportare la rinuncia ad altre attività

più redditizie, ma più impegnative (cfr. Cass. 29 settembre 1997 n. 9542).

Costituisce, infine, principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo il

quale la riduzione del reddito può essere dimostrata anche attraverso un complesso di indizi gravi,

precisi e concordanti (Cass. n. 1120 del 2006, 14026 del 2004).

Nel caso di specie, pertanto, i giudici di appello avrebbero potuto far ricorso ad una liquidazione in

via equitativa, una volta accertato, sulla base della consulenza tecnica di ufficio, che le

menomazioni conseguenti all'incidente avevano realmente cagionato all'infortunato una “obbiettiva

riduzione della funzionalità vestibolare” con il risultato di impedire al G. la possibilità di

completare l'iter addestrativo degli allievi, potendo egli ora addestrare il personale solo sui

simulatori a postazione esterne e fissi.

Conclusivamente il ricorso deve essere accolto, essendo manifestamente fondati entrambi i motivi

di ricorso.

La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altro giudice che procederà a nuovo

esame, tenendo conto dei principi enunciati. Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle

spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Roma

anche per le spese del presente giudizio.

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